All’interno dei rischi di tipo fisico, oggetto della valutazione dei rischi aziendali così come descritti nell’art 180 (Titolo VIII, Capo I) del D.Lgs 81/08, rientra anche il discorso legato al microclima. Spesso, soprattutto in passato ed almeno fino all’avvento della normativa 626/94, le situazioni di disagio all’interno dei luoghi di lavoro legate alle condizioni microclimatiche (livelli di temperatura, umidità, correnti e sbalzi d’aria), sono state sottovalutate se non addirittura ignorate; in realtà i disagi derivanti possono avere un impatto anche significativo sia sulla salute fisica che sul benessere psicologico dei lavoratori, con ricadute non trascurabili sull’economia aziendale se poi si riflettono, come può accadere, in giorni di assenza o di malattia.
Entrando nello specifico della normativa, l’Allegato IV al punto 1.9, definisce i requisiti minimi che i luoghi di lavoro devono possedere per poter risultare conformi e quindi garantire condizioni di benessere adeguate. Il primo aspetto valutato è quello relativo alla aerazione dei luoghi di lavoro chiusi, che deve essere sempre garantita preferenzialmente con finestre e, qualora non possibile, con impianti di aerazione periodicamente controllati, mantenuti funzionanti in modo da non esporre i lavoratori a correnti d’aria diretta.
Un altro aspetto importante da non sottovalutare è quello della corretta regolazione della temperature (1.9.2), che devono essere adeguate in considerazione dei metodi di lavoro e degli sforzi fisici previsti.
Non vi è quindi una precisa indicazione della temperatura da adottare, che varia appunto tenendo conto delle specifiche attività e che deve essere regolata anche in funzione delle temperature ambientali esterne, evitando sbalzi rapidi ed eccessivi (soprattutto durante la stagione calda).
Infine anche il grado di umidità assume un ruolo importante, deve essere sempre tenuta sotto controllo e mantenuta all’interno di livelli adeguati, compatibilmente con le esigenze tecniche del lavoro.
L’applicabilità delle linee guida definite dalla normativa dipende, come facilmente intuibile, dalla natura del luogo di lavoro e dall’attività che lì si svolge; la regolazione delle condizioni in un ambiente di lavoro chiuso e destinato ad attività prevalentemente d’ufficio, risulta più semplice rispetto a situazioni lavorative che prevedono una attività fisica continua, in spazi magari ampi (ad esempio in grandi magazzini, capannoni o realtà industriali quali industria chimica, estrattiva) o che espongano i lavoratori a condizioni climatiche esterne fortemente disagiate, si pensi per esempio a tutte le attività che devono essere svolte all’esterno a temperature basse in inverno o molto elevate in estate.
In questi casi la normativa prevede che, ove non possibile intervenire con impinati ad hoc, si provveda ad adottare misure tecniche quali protezioni dal freddo per ambienti termici severi freddi, e organizzative (pause frequenti, lavoro notturno per ambienti termici severi caldi) rivolte a migliorare per quanto sia possibile le condizioni dei lavoratori.
Come già accennato in precedenza gli eventuali rischi da esposizione a temperature disagevoli sono soprattutto di natura fisica, anche se è importante non sottovalutare alcuni aspetti psicologici.
Un forte stress termico, così come esposizioni prolungate a temperature non adeguate o a correnti d’aria dirette, possono provocare malesseri fisici a carico dell’apparato respiratorio, muscolo scheletrico, gastro intestinale, fino ad arrivare in casi estremi a colpi di calore o di freddo con conseguenze anche gravi sull’intero organismo.
Un’inadeguata manutenzione degli impianti di condizionamento, e una revisione inaccurata dei filtri dell’aria, può inoltre essere concausa di una proliferazione batterica negli impianti, soprattutto se associata a livelli di umidità elevati, con possibili ricadute a livello biologico (es. casi di contaminazione da legionella, microrganismo patogeno che prolifera nelle acque degli impianti di areazione).
La vasta eterogeneità degli ambienti lavorativi e delle molteplici attività che in questi si possono eseguire, non consente di indicare delle linee guida precise e standardizzate, applicabili in forma generale a tutti i luoghi di lavoro.
Si pensi per esempio, come accennato, alle grandi attività industriali, in cui centinaia di operai prestano la loro opera contestualmente in situazioni di lavoro in cui devono essere utilizzati macchinari e strumentazioni che producono calore, o viceversa ad addetti dell’industria alimentare che eseguono attività in cui vengono utilizzate celle frigorifere per la conservazione dei prodotti. In queste situazioni il datore di lavoro dovrà eseguire un’attenta valutazione dei rischi correlati a esposizione a temperature disagevoli, o a improvvisi sbalzi termici, sfruttando tutti le misure tecniche, organizzative e procedurali volte a garantire prevenzione (ove possibile) e protezione dal rischio.
Una componente importante da considerare in fase di valutazione dei rischi da inadeguato microclima, è poi quella dell’affollamento del luogo di lavoro; per esempio ambienti in cui lavorano tante persone contemporaneamente (come call center o grandi open space aziendali) espongono a rischi diretti di natura microclimatica (adeguati ricambi d’aria) che a rischi indiretti di natura più soggettiva e psicologica (stress da affollamento, sensazione di mancanza d’aria, rischio biologico da trasmissione interpersonale, rischio da rumore).
Da non sottovalutare infine la componente soggettiva del rischio legato al microclima, soprattutto negli uffici frequentati da più persone in cui si innescano spesso tensioni e malumori legati alla differente percezione che ognuno di noi ha della condizione ambientale, dissapori che possono degenerare in un altro tipo di rischio lavoro correlato con disturbi psicosomatici e disagi lavorativi che, per quanto non direttamente collegati al microclima, ne sono una evidente e significativa conseguenza.
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