Proseguono a Torino le udienze per il maxiprocesso Eternit che indaga sulle responsabilità delle morti causate dall’amianto. L’ultima udienza, a metà maggio, è stata quella di un operaio dello stabilimento di Rubiera, in Emilia Romagna, dove secondo la procure ben 60 morti sarebbero stati causati dall’uso dell’amianto e dalla mancanza dei necessari controlli
Nella città lo stabilimento Eternit fu aperto nel 1961. L’operaio ha raccontato come lui e i colleghi aprissero con il coltello i sacchi di tela contenenti il minerale e che quando la gente si ammalava e moriva di asbestosi e cancro si credeva che la causa potesse essere il fumo. Questo perché la dirigenza dell’azienda non aveva mai dato informazioni, che pure al tempo già esistevano, sui rischi connessi all’esposizione all’amianto.
È vero, ha raccontato ancora l’operaio, che c’erano degli aspiratori ma non erano sufficienti e gli operai spaccavano i pezzi più grandi a copi di pala, spesso senza le mascherine. Questo perché “non si riusciva a resistere con una temperatura 35-40° e le mascherine sulla faccia”. Un altro operaio dello stesso stabilimento ha anche aggiunto che i dirigenti dicevano che l’amianto era inerte e non faceva male, che tutto era a norma di legge e promettevano sempre di mettere nuovi sistemi di areazione, ma poi non lo facevano. E per di più gli indumenti da lavoro venivano portati a casa e lavati in famiglia.
Eppure nella fabbrica nei primi anni ’70 si trattava l’amianto blu, uno dei più pericolosi. Per questi ed altri motivi emersi nel corso del maxiprocesso allo svizzero Stephan Schmidheiny e al belga Jean-Marie Louis de Cartier de Marchienne, responsabili di Eternit al tempo dei fatti, è contestato il reato di disastro doloso in relazione a oltre 3 mila vittime dell’amianto nelle città italiane in cui erano presenti gli stabilimenti. sanitari e misure di sicurezza.